Un’ ipotesi di studio sulla nebbia alla luce di una review sulla troposfera

Un’ ipotesi di studio sulla nebbia alla luce di una review sulla troposfera

Di Giulio Lorenzini

Parma, 30 Novembre 2018 – ABSTRACT

Una review sullo stato della troposfera precede l’esame di un’ipotesi originale sulla struttura della nebbia. Ci sembra che il fenomeno meteorico “nebbia” sia spesso affrontato con un eccesso di semplificazioni e forse di empirismo. Per esempio la distinzione di una nebbia da irradiazione, di un’altra da avvezione ed infine di una orografica non allude a diversi meccanismi eziologici ma alle circostanze che accompagnano l’unico e solo meccanismo causativo che è il condensarsi del vapore acqueo attorno ad un nucleo costituito da un granulo di pulviscolo o, più probabilmente, attorno a qualche grosso frammento minerale od organico, in quest’ultimo caso di origine animale o vegetale. Non ci pare sufficientemente spiegata l’identificazione della nebbia con una nuvola di bassa quota. Ci pare logico pensare che la struttura della nebbia non sia come quella delle nuvole fatta di gocce d’acqua di condensa accostate tra loro e dove, per la loro sfericità, gli elettroliti si dispongono al centro della sfera, aumentandone la tensione superficiale, mentre i corpi organici idrosolubili si dispongono alla periferia, riducendone la tensione superficiale. L’acqua di condensa della nebbia che si raccoglie attorno ai frustoli grossolani di natura minerale ed organica non si dispone più come una sfera attorno ad un nucleo puntiforme, bensì come dei veli che disegnano figure geometriche poliedriche dal volume molto più grande, capace di accogliere più elettroliti e più corpi organici idrosolubili, disponendoli in modo omogeneo e quindi senza modifiche della tensione superficiale. Infine troverebbe più convincente giustificazione la storicità della topografia delle nebbie, che dipende dal persistere di pulviscolo abbondante e grossolano in alcune zone poco ventilate e fredde, che non ha subito particolari incrementi o delocalizzazioni per le attività antropiche, notoriamente produttrici di un pulviscolo piccolo e pressoché puntiforme, non adatto quindi a generare strutture solide nell’acqua di condensa. E’ necessario pensare ad un’altra geometria dei liquidi di deposito nella nebbia, a cui non è estranea la fase particellare dell’aerosol primario che, alle basse quote, è più grossolana in quanto costituita da corpuscoli minerali aggregati, frammenti vegetali o animali galleggianti nell’aria bassa, erbe o pianticelle radicate al suolo. In effetti una struttura mista, in parte sferica ed in parte poliedrica, può accogliere una maggior quantità di soluti senza riduzioni della tensione superficiale tali da causarne il dissolvimento: inoltre il maggior ancoraggio al suolo e la maggior coesione ad un reticolo di supporto può spiegare la longevità della nebbia per maggior resistenza ai venti.

L’ATMOSFERA L’atmosfera è un involucro composto da una fase aeriforme (gas e vapori) ed una fase particellare (gocce liquide e corpuscoli solidi minerali-organici) dello spessore di 36000 km che la Terra si trascina dietro nei suoi movimenti di rotazione e traslazione [3, 4, 12], ma quella parte che interessa i fenomeni meteorici relativi alla presenza di acqua, è la troposfera.

LA TROPOSFERA Essa ha lo spessore di 12 km dal livello del mare, la sua composizione chimica è costante, la sua temperatura passa dai +15 ai -60°C, la sua pressione barometrica dai 760 mm Hg non scende sotto i 70 mm Hg, la sua densità decresce da 1,2 a 0,2 kg/m3 [3, 4, 12]. La troposfera è la sola a contenere anche acqua nei suoi tre stati fisici: vapore – liquido (acqua di condensa) – solido (cristalli di ghiaccio), in attivo scambio tra loro e solo in parte destinati a pervenire al suolo sotto forma liquida (pioggia, rugiada) o solida (neve, grandine, brina) [1, 3, 4, 12]. La maggior parte dell’acqua rimane invece sospesa nell’aria sotto forma di vapore invisibile, di liquido (le nubi, la nebbia), di solido (i cirri), perché di peso irrisorio.

Immagine 1 art
Figura 1. Fenomeni meteorici legati ai passaggi di stato fisico dell’acqua troposferica

L’instabilità dello stato fisico dell’acqua troposferica è dovuta, nell’ordine, alle variazioni del suo contenuto di particelle pulviscolari (minerali ed organiche, queste ultime di natura vegetale ed animale), della sua temperatura e del suo grado d’umidità alle diverse quote: in ogni momento però i rapporti di queste grandezze possono essere sovvertiti dalla presenza dei venti (locali o sistemici) [3, 4, 12]. Nella fig.1 abbiamo cercato di rappresentare i fenomeni meteorici conseguenti all’instabilità dello stato fisico dell’acqua troposferica.

CIRRI, GRANDINE, NUBI A CUMULO O A CUMULO-NEMBO, NEVE, NUBI A STRATO, BRINA, GALAVERNA

Ad alta quota l’acqua si solidifica sotto forma di aghi di ghiaccio (i cirri) ed in globi di ghiaccio che sono i nuclei della grandine, mentre l’acqua liquida si raccoglie sotto forma di nuvole a cumulo o a cumulo-nembo, nonché come involucro di acqua gelata attorno ai globi di ghiaccio della grandine: a quota media l’acqua si congela sotto forma di neve o si raccoglie sotto forma di gocce liquide (nuvole a strato, cioè a sviluppo orizzontale). A bassa quota o addirittura al suolo, il congelamento dell’acqua dà luogo a due fenomeni distinti che sono la brina e la galaverna, mentre la condensa dell’acqua dà luogo alla nebbia ed alla rugiada. La brina (aghi di ghiaccio su piante od oggetti) è dovuta a forte ed improvviso abbassamento della temperatura anche in assenza di un buon livello d’umidità, mentre la galaverna (festoni di ghiaccio pendenti da piante od oggetti) è dovuta al congelamento dell’acqua contenuta nella nebbia.

NEBBIA, RUGIADA

La nebbia è tradizionalmente considerata una nuvola di bassa quota, ma forse tutto ciò è semplicistico: indubbiamente si tratta di raccolta di acqua liquida che in parte sarà sotto forma di gocciole ma che, in parte, potrebbe essere sotto forma di altre figure geometriche a maggior volumetria dovuta alla diversa natura del pulviscolo atmosferico alle basse quote ed in zone, per così dire, storiche per le caratteristiche irregolari del pulviscolo. La rugiada (gocce d’acqua su foglie ed oggetti) è dovuta a minime riduzioni di temperatura, ma in presenza di elevatissimo livello d’umidità. I cirri, le nuvole, la nebbia sono destinati ad una vita effimera perché dispersi dall’azione possente dei venti o perché costretti ad un ritorno allo stato fisico di vapore: in caso contrario sono destinati ad accrescersi e quindi ad appesantirsi.

GENESI DEI CIRRI E DELLA GRANDINE

Ad alta quota l’acqua liquida ghiaccia sotto forma di cristalli esaedrici aghiformi (i cirri) o di globi (i nuclei della grandine) che si accrescono per imbrinamento cioè per solidificazione di vapor acqueo lungo le linee di forza elettrostatiche di Van der Waals dei dipoli dell’acqua (del ghiaccio). Appesantiti, i cirri scendono a quote medie dove si trasformano in gocce d’acqua, o agiscono come particelle condensanti il vapore, dando luogo alla formazione di nubi che riconoscerebbero così la loro origine nei cirri: questo sarebbe vero per le regioni polari e subpolari mentre nelle regioni temperate ed equatoriali prevarrebbe il meccanismo della condensa attorno al pulviscolo. I globi ghiacciati di grandine, scesi a quote medie, vengono avvolti da acqua gelata ma, se risospinti dai venti verso le alte quote, si avvolgono di un guscio ghiacciato che li appesantisce e li sospinge a quote medie avvolgendoli in acqua gelata: questi rimbalzi tra alte e medie quote comportano il formarsi di corpi sferici composti da strati di ghiaccio e acqua gelata tali da raggiungere anche le dimensioni di un pompelmo e così pesanti da abbattersi violentemente al suolo.

GENESI DELLA NEVE

I cirri, pervenuti o formatisi alle quote medie, interagiscono tra loro realizzando curiose morfologie di cristalli, tutti direzionali tra loro, che sono i fiocchi di neve, destinati in parte a cadere al suolo ed in parte a cambiare stato [3, 4].

GENESI DELLE NUBI

L’acqua di condensa formatasi alle medie quote, direttamente (regioni equatoriali e temperate) o per liquefazione dei cirri (regioni polari e subpolari), si raccoglie sotto forma di sfere e solo sotto forma di sfere essendo l’unica geometria possibile per un liquido sospeso in un aerosol in cui non è miscibile [1, 15, 21, 26, 29]. Le gocce di piccole dimensioni (6 – 17 μm) sono leggere e cadono lentamente al suolo in assenza di vento, la cui presenza le disperde e impedisce quegli accostamenti tra una goccia e l’altra che causa la confluenza delle gocce più piccole in quelle più grandi, secondo la legge di Laplace [29] (le gocce più piccole hanno una tensione superficiale più alta ed invadono quelle più grandi la cui tensione superficiale si riduce ulteriormente): qualora tali accostamenti si realizzino, si possono raggiungere gocce delle dimensioni di 6 mm di diametro, che invece tendono più facilmente a cadere al suolo.

GENESI DELLA PIOGGIA A GRANDI OD A PICCOLE GOCCE

Le gocce d’acqua che non galleggiano nell’aria o non evaporano per tensione superficiale bassissima, cadono al suolo sotto forma di pioggia a grandi o piccole gocce, per semplice forza di gravità, essendo più facilmente grosse quelle derivate dai cirri, che evidentemente condensano più acqua attorno a loro.

GENESI DELLA NEBBIA

A bassa quota l’acqua di condensa è responsabile di un fenomeno meteorico, la nebbia, che è stato
considerato il medesimo che produce le nubi (cioè il compattarsi di piccole e grosse gocce d’acqua), il che non spiegherebbe certe differenze macroscopiche come la maggior persistenza, la maggior densità, il più elevato contenuto in elettroliti della nebbia, e così via [2, 6, 11, 14, 17, 27, 39]. E’ possibile allora che la parte corpuscolare della struttura di sostegno, più abbondante e più grossolana perché più vicina al suolo e perché di particolare natura minerale-organica, possa intrappolare acqua non solo sotto forma di gocce ma anche di forme geometriche poliedriche, a sviluppo volumetrico maggiore, tale da accogliere più elettroliti e da realizzare una struttura più pesante ed inerte, che resiste meglio ai venti e blocca le radiazioni solari (effetto termico ed effetto fotolitico ridotti all’interno del banco), prolungandone la vita. La persistenza dell’effetto calorico e fotolitico al di sopra e al di fuori del banco, ne assicura l’accrescimento verticale che ha nel freddo e nella mancata idrosolubilità dei composti organici una garanzia di mantenimento [40]. Difficilmente le precipitazioni meteoriche pervengono al suolo nelle stesse forme con cui sono iniziate nella troposfera, perché si realizzano vari passaggi di stato fisico dell’acqua nel percorso di avvicinamento a terra conseguenti, in assenza di vento, al progressivo aumento della temperatura, del grado di umidità, del progressivo aumento del numero e del volume delle particelle di pulviscolo. Queste condizioni privilegiano i fenomeni di condensazione del vapor acqueo, com’è comprovato dalla prevalenza della pioggia tra le precipitazioni, essendo i fenomeni di congelamento delle gocce d’acqua (grandine) e la cristallizzazione dell’acqua (neve) legata a particolari situazioni locali, in certe stagioni e/o a certe latitudini [3, 4, 12].

PULVISCOLO ATMOSFERICO

Eppure il fenomeno della condensazione e della cristallizzazione dell’acqua sarebbero estremamente improbabili in assenza di pulviscolo atmosferico, anche per abbassamenti di temperatura e dei tassi di umidità spinti od estremi, mentre, in presenza di elevata quantità di pulviscolo atmosferico, si realizzano anche per raffreddamenti e tassi d’umidità moderati: tutto questo ridimensiona di molto il ruolo della temperatura e dell’umidità nella genesi delle precipitazioni [3, 4, 12]. Le dimensioni ed il numero delle particelle di pulviscolo sono estremamente variabili, da 0,003 μm a 1000μm, da 50 a 10 milioni per litro d’aria: alle quote più elevate il pulviscolo è più fine e più scarso oltre che, solitamente, puntiforme, mentre alle quote più basse è più abbondante e grossolano potendo essere costituito da frustoli vegetali o da scheletri di piccoli animali che, essendo più pesanti, non possono essere portati in alto. Il sale marino, che è la fonte principale del pulviscolo assieme alla polvere dei deserti, dà luogo a particelle di 0,05 – 10 μm, mentre lo smog industriale e gli incendi producono particelle di 0,01 – 1 μm. I nuclei di cristallizzazione per cirri e neve sono costituiti da particelle delle dimensioni tra 5 – 50 μm ed in numero di 0,1 – 10 particelle per litro d’aria. I nuclei di condensazione per pioggia e nebbia sono costituiti da particelle di dimensioni tra 0,05 – 1 μm ed in numero di 25 mila – 2,5 milioni per litro d’aria.

L’AEROSOL PRIMARIO

La troposfera è la grande discarica naturale dei materiali aeriformi (gas e vapori) nonché dei detriti solidi prodotti dalla terra e presenti sulla sua crosta: si tratta dei ben noti elementi del sistema periodico, distinti in metalli e non metalli [7, 10, 25, 26, 36]. Gas e vapori si versano nella troposfera in favore del gradiente pressorio geofugo, i detriti solidi sono sollevati dal vento e restano in sospensione finché quest’ultimo ne antagonizza il peso. Gli elementi aeriformi tendono ad allontanarsi dalla terra ed i più leggeri finiscono per perdersi negli spazi siderali mentre i materiali particellari difficilmente si allontanano dalla troposfera e ricadono al suolo anche a grande distanza dal punto di partenza (per esempio polveri desertiche nelle regioni subpolari). In questo modo la composizione fisico-chimica dell’attuale troposfera è sicuramente diversa da quella primigenia del pianeta quando un tenue strato gassoso comprendeva i sei gas non reattivi (azoto, argo, neon, elio, kripto, xeno) più l’idrogeno, mentre vapor acqueo ed ossigeno cominciavano ad apparire quali conseguenze dell’effetto termico solare sulle acque terrestri e dell’effetto fotolitico sulle stesse che si scindevano in idrogeno ed ossigeno [3, 4]. Questo semplice schematismo si complicava però per l’apporto di gas, vapori, detriti materiali provenienti da violente eruzioni vulcaniche, da piogge di meteoriti, da passaggi di lunghe code di comete apportatrici di sempre nuovi elementi di chimica inorganica ed organica.

LA CHIMICA INORGANICA-ORGANICA E BIOLOGICA

Queste condizioni che escludevano qualunque forma di vita, durarono almeno 3 miliardi e mezzo di anni, durante i quali si fondarono i principi generali della chimica, che oggi non ha più senso distinguere in inorganica ed organica, essendo quest’ultima solo un caso particolare della prima che coinvolge carbonio, ossigeno, idrogeno ed azoto, mentre attiene alla chimica biologica quella che riguarda gli esseri viventi destinati a popolare la terra nell’ultimo mezzo miliardo di anni [8, 9, 15].

LA FOTOCHIMICA

Vero è che inizialmente la chimica era esclusivamente quella che ora chiamiamo fotica, perché ricava l’energia delle reazioni dallo spettro luminoso solare (2000 – 8000 Angstrom) che combina o scinde un numero determinato di molecole per ogni quanto di energia erogato.

LA CHIMICA TERMICA

A questa fotochimica si è associata la chimica termica che sfrutta l’energia dei composti idrogenati ed ossigenati sottoposti ad idrolisi (basi, acidi, alcoli, aldeidi, chetoni, amine) che consente solidificazioni ed eteri-esterificazioni di nuovi composti, esemplificati dalla fig.2 dove, solo per praticità espositiva, sono raffigurati separatamente i percorsi dei composti inorganici ed organici: composti idrogenati ed ossigenati si sono moltiplicati all’infinito con la comparsa degli esseri viventi dotati di clorofilla di cui sono diventati metaboliti fondamentali. Comunque generati i composti chimici si presentano come vapori o come liquidi suscettibili di evaporare per cui possono poi versarsi nella troposfera: se solidi, possono polverizzarsi e divenire preda dei venti dominatori della troposfera.

Figura 2. Schematica di chimica inorganica-organica
Figura 2. Schematica di chimica inorganica-organica

E’ evidente che l’aerosol troposferico è formato da gas, vapori e detriti di origine crostale che attrezzature sempre più sofisticate hanno dimostrato costituti dagli stessi elementi del sistema periodico anche se, cronologicamente, sono stati conosciuti prima e meglio i composti di quella che si chiamava la chimica inorganica (più abbondanti e più facilmente identificabili) rispetto a quelli della chimica organica. Complessivamente questi dati sono di dubbia importanza ai fini meteorologici.

L’AEROSOL SECONDARIO

E’ relativamente recente un’altra constatazione relativa all’aerosol troposferico secondo cui alcuni composti non possono essere di origine crostale, non foss’altro nelle quantità riscontrate, né si può pensare che si siano combinati nella troposfera per reazione diretta di precursori che non vi avrebbero mai trovato le condizioni adatte di concentrazione, temperatura, stabilità, ecc., necessarie alla salificazione-eteri-esterificazione. Si è pensato allora all’acqua di condensa delle nuvole e della nebbia come a dei microreattori che accogliendo i composti idrofilici e idrolizzandoli, li trasforma in basi, acidi inorganici ed organici, alcoli, aldeidi, chetoni, amine altamente reattivi secondo i canoni della chimica termica: naturalmente per i composti non idrofilici, specialmente quelli organici, subentra l’attività della fotochimica che, rendendo idrofile le loro catene laterali, consente il loro ingresso nell’acqua di condensa e nel conseguente ciclo di salificazione-eteri-esterificazione. Si è postulato così un aerosol secondario (via acqua di condensa) accanto ad un aerosol primario (direttamente dalla crosta terrestre) stimato, il primo, dell’ordine del 20-60% del secondo [28, 33]. Gas e vapori dell’aerosol primario e secondario della troposfera si comportano nei confronti dell’acqua di condensa come gas e vapori perfetti essendo ben lontani dal loro punto di liquefazione a quelle temperature e pressioni vigenti nella troposfera stessa. Sarà maggiore la quota che discioglie, in assenza di affinità chimiche tra solvente e soluto, quanto maggiore sarà la pressione parziale del gas-vapore nell’aerosol (legge di Dalton) e minore la sua temperatura (legge di Henry). La tensione superficiale dell’acqua di condensa aumenta se vanno in soluzione gas-vapori inorganici mentre si riduce per quelli organici (legge di Gibbs): questo ha delle conseguenze per raccolte idriche contigue che vedono il confluire delle soluzioni a maggior tensione superficiale in quelle a minore (legge di Laplace) [8, 13, 15, 29].

EFFETTO SCAVENGING

La cattura di soluti nell’acqua di condensa delle nuvole e della nebbia è stato sopravvalutato come effetto scavenging che vede in primo piano la nebbia capace di catturare fino a 50 volte in più soluti rispetto alle nuvole [20, 32]: poiché il soluto catturato viene prima o poi riceduto o sotto forma di precipitazione al suolo o all’aerosol troposferico, per evaporazione, non si realizza una vera eliminazione dell’inquinante, per cui va ridimensionato il concetto di un intervento di pulizia.

LE PIOGGE ACIDE

Un classico esempio è quello delle piogge acide, piogge il cui pH non è più debolmente acido, com’è fisiologico (circa 5), ma scende anche vicino a 2 con effetti devastanti sul fogliame delle piante, poi sulle radici una volta pervenute sul suolo, ed infine sulle branchie respiratorie degli animali acquatici, una volta arrivate nelle acque di scolo [18, 19, 23, 31, 37]. Il fenomeno è la conseguenza della cattura da parte delle nuvole e delle nebbie di anidridi solforose e nitrose comunque prodotte (esalazioni crostali, attività antropiche) e loro idrolisi in acido solforico ed acido nitrico, che sono acidi fortissimi capaci di soverchiare l’effetto tampone degli aminoacidi pervenuti all’acqua di condensa con i gas-vapori organici. Del tutto recentissimo è questo argomento dell’ingresso di gas e vapori organici nell’acqua di condensa che era stato sempre trascurato per la modestia quantitativa del fenomeno (2-40 mg/l d’aria) conseguente al fatto che i gas ed i vapori organici (a basso numero di atomi di carbonio) sono poco volatili, si allontanano poco dal luogo di produzione e sono idrofobici [5, 16, 22]: quest’ultimo ostacolo è stato superato dall’effetto fotolitico sulle catene laterali, che rende il composto del tutto idrofilo e quindi si discioglie nell’acqua di condensa.

GLI HULIS

L’analisi chimica di tali composti ha rivelato l’importanza dei radicali acidi policarbossilici e degli aminoacidi. I primi, sempre in quantità modeste ma rappresentanti quasi la metà dei composti organici, hanno un altissimo peso molecolare (500 Da) che li rende fortemente simili ai gas-vapori organici prodotti dalla combustione spontanea dei vegetali (foreste, praterie, ecc.) e che vengono genericamente indicati come sostanze umiche: di qui il termine convenzionale di HULIS (HUmic LIke Substances) dato a questi composti organici ad alto peso molecolare, ritrovati nell’acqua di condensa di nuvole e nebbie, insistenti in zone ad elevato smaltimento di escrementi di allevamenti intensivi o di biomasse enormi prodotte da piantagioni estesissime. L’effetto decisivo sulla durata dei fenomeni meteorici in oggetto rende ragione della loro frequenza in zone “storiche”, spontaneamente tali, e per attività antropica.

LE POLVERI SOTTILI

Se la quota dei composti amminoacidi si è rivelata molto utile per tamponare il pH dell’acqua di condensa, non si può dire altrettanto della loro partecipazione alla formazione delle polveri sottili (PM 2,5) che, una volta liberate nell’aerosol troposferico, vengono respirate dall’uomo sulla cui parete bronchiale mantiene una flogosi cronica [24, 30, 35, 38]. Così come il chimismo della troposfera tende a mantenersi costante con effetti indesiderati in caso di cambiamento, altrettanto lo è per il suo stato fisico, che si riferisce alla temperatura, alla presenza di radiazioni solari, al moto dell’aria.

EFFETTO TERMICO DELL’ANIDRIDE CARBONICA

Per quanto riguarda la temperatura della troposfera, qui ci interessa solo il contributo di un vapore, l’anidride carbonica, derivante dalla composizione ossidativa del carbonio e che esercita un potere antidisperdente del calore, creando cioè una sorta di guscio coibente attorno alla terra, al di sotto del quale la temperatura si conserva (effetto serra). E’ certo che, ai primordi della terra, tale guscio fosse imponente derivando dalla liberazione dell’ossigeno dall’acqua, per effetto fotolitico, e dall’abbondante carbonio delle eruzioni vulcaniche. Al di sotto di questo guscio la temperatura era senz’altro elevata e poco adatta alla vita senonché, con la comparsa delle prime piante, l’anidride carbonica venne massicciamente ridotta, perché metabolita di cui loro sono avide, fino agli attuali valori percentuali di tracce. Preoccupanti quantità di anidride carbonica vengono versate nella troposfera dalla combustione di petrolio (e derivati) e carbone, nonché dalla deforestazione scriteriata che riduce le piante consumatrici di anidride carbonica [3, 4]. E’ paradossale che materiali derivati da piante sepolte per millenni, dopo aver contribuito ad una moderazione dell’anidride carbonica, ora la cedano in una sorta di resa dei conti molto pericolosa: il temuto riformarsi della serra porterebbe allo scioglimento dei ghiacciai, all’elevazione del livello delle acque, allo sprofondamento delle terre, cioè ad una catastrofe planetaria.

EFFETTO PROTETTIVO DELL’OZONO

Non meno preoccupante è il calo produttivo dell’ossigeno, come conseguenza della deforestazione, non avvertito ancora nella troposfera ma già nella stratosfera dove,la presenza di un ambiente molto ionizzante per il passaggio di particelle veloci ed oscillazioni elettromagnetiche, trasforma buona parte dell’ossigeno (biomolecolare) in ozono (stato allotropico trimolecolare dell’ossigeno). L’ozono ha così costruito una sorta di tenuissimo guscio attorno alla terra, che ha una funzione fondamentale: quella di intercettare i raggi ultravioletti solari che, in tal modo, non pervengono più sulla terra in quantità eccessiva. La minor produzione di ossigeno ma soprattutto la produzione di gas artificiali (i clorofluorocarburi CFCl2) che si assestano nella stratosfera per centinaia d’anni, rompendo il legame trimolecolare dell’ozono, provoca così fortissime rarefazioni della calotta periplanetaria, soprattutto al di sopra dell’emisfero australe (buco dell’ozono) [3, 4]. Attraverso queste smagliature passano di nuovo i raggi ultravioletti e sulla terra si moltiplicano gli effetti mutageni sul materiale vivente e gli effetti fotochimici sula materiale inerte, non sempre controllabili. Per il momento si è concordata la progressiva estinzione della produzione dei cloro-fluoro-carburi, che sono importantissimi come propellenti nelle bombolette spray, negli scambiatori di calore dei frigo, come collanti nelle tecniche d’imballaggio.

I VENTI

Sul parametro fisico della dinamica dei venti, l’uomo non ha responsabilità dirette perché sono al di fuori delle sue possibilità i grandi motori delle masse d’aria troposferiche costituiti dai salti di temperatura: questo vale sia per i venti sistemici, fissi o periodici come alisei e contralisei o i monsoni, sia per quelli locali [3, 4, 12].

Figura 3. Genesi dei venti costanti
Figura 3. Genesi dei venti costanti

I primi sono mossi dai grandi salti di temperatura tra le regioni equatoriali, subtropicali, polari nonché dalla deriva inerziale conseguente ai moti rotatori del pianeta com’è esemplificato dalla fig. 3, all’origine della scoperta delle cellule termiche. Anche i venti locali, le brezze, riconoscono la loro origine in più modesti salti di temperatura tra località adiacenti, spesso con inversioni di direzione dello spirare dei venti all’alternarsi del ritmo circadiano. Sembra che il compito principale dei venti sia quello di omogeneizzare il contenuto della troposfera nel nome di una equità che talora vuol dire ingiustizia, quando alcune zone geografiche sono percorse da inquinanti prodotti da altre, semplicemente perché, per pura sfortuna, si trovano sulle traiettorie di venti costanti. Da tempo è ormai evidente che non si può lasciare al caso il problema del controllo fisico-chimico della troposfera né considerarlo disgiunto da quello della biosfera, geosfera ed idrosfera perché fatalmente interdipendenti nelle ricadute che riguardano soprattutto gli esseri viventi che hanno un grosso handicap rispetto alla natura inanimata: hanno a disposizione un tempo troppo breve per correggere gli errori. La fig.4 [34] tenta di sintetizzare questa interdipendenza e questa necessità di interventi coordinati secondo un piano strategico che può ammettere, solo tatticamente, interventi settoriali.

Figura 4. La biosfera (piante-animali)
Figura 4. La biosfera (piante-animali)

LA NEBBIA: UN’IPOTESI DI STUDIO

Ci sembra che il fenomeno meteorico “nebbia” sia spesso affrontato con un eccesso di semplificazioni e forse di empirismo. Per esempio la distinzione di una nebbia da irradiazione, di un’altra da avvezione ed infine di una orografica non allude a diversi meccanismi eziologici ma alle circostanze che accompagnano l’unico e solo meccanismo causativo che è il condensarsi del vapore acqueo attorno ad un nucleo costituito da un granulo di pulviscolo o, più probabilmente, attorno a qualche grosso frammento minerale od organico, in quest’ultimo caso di origine animale o vegetale. La nebbia da irradiazione compare dopo una giornata di sole autunnale seguita da una notte gelida: la crosta terrestre riscaldata fa evaporare l’acqua di superficie ed il freddo della notte la condensa attorno al pulviscolo. La nebbia da avvezione compare per scivolamento orizzontale di un fronte freddo su una superficie calda ed evaporante (per esempio per l’arrivo di un vento freddo sull’acqua tiepida di un lago) o per l’arrivo di un fronte caldo e saturo di umidità su una superficie fredda (per esempio per l’arrivo di aria tropicale su un mare artico): anche in questi casi l’abbassamento della temperatura locale fa condensare il vapore acqueo attorno al pulviscolo. La nebbia orografica è quella che riempie le vallate fonde e strette delle montagne, arrampicandosi sui loro fianchi più bassi perché, non arrivando qui mai il sole che viene arrestato dalle vette, la temperatura costantemente bassa condensa il vapore acqueo sprigionato da qualche ruscello vallivo. Anche la distinzione della densità della nebbia si limita ad un criterio molto empirico, ma ormai validato dall’uso, basato sul grado di visibilità in metri di un osservatore presente nel contesto della nebbia (foschia per visibilità a 3000 metri, nebbia spessa a 200 metri, nebbia fitta a 50 metri, nebbia densa a 30 metri). Non ci pare sufficientemente spiegata l’identificazione della nebbia con una nuvola di bassa quota, perché il contenuto di elettroliti e di corpi organici idrosolubili nella nebbia è unanimemente riscontrato superiore a quello delle nuvole (da 3 a 50 volte), mentre ci si aspetterebbe il contrario essendo più elevata la temperatura a basse quote (con una minor dissoluzione di gas nell’acqua) e la pressione atmosferica a bassa quota non è certamente tanto superiore a quella delle nuvole da giustificare un maggior ingresso di elettroliti e di corpi organici (legge di Dalton) e, soprattutto, essendo la temperatura ambientale più alta a bassa quota, ci si aspetterebbe un minor ingresso di elettroliti e di corpi organici (legge di Henry). Infatti: la soluzione di un gas in un liquido è in funzione della temperatura del liquido e della pressione del gas (minor solubilità a temperature maggiori; maggior solubilità a pressioni maggiori). Infine non si spiega la maggior persistenza della nebbia rispetto alle nuvole quando, secondo la legge di Gibbs, il più alto contenuto in corpi organici idrosolubili dovrebbe ridurre la tensione superficiale dell’acqua di condensa e farla evaporare (la tensione superficiale si riduce in presenza di corpi organici idrosolubili sospesi).

Figura 5. Modello ipotetico di struttura della nebbia
Figura 5. Modello ipotetico di struttura della nebbia

 

Figura 6. Modello ipotetico di struttura delle nuvole
Figura 6. Modello ipotetico di struttura delle nuvole

Ci pare logico pensare che la struttura della nebbia non sia come quella delle nuvole fatta di gocce d’acqua di condensa accostate tra loro e dove, per la loro sfericità, gli elettroliti si dispongono al centro della sfera, aumentandone la tensione superficiale, mentre i corpi organici idrosolubili si dispongono alla periferia, riducendone la tensione superficiale. Se ipotizziamo per la nebbia una struttura come quella riportata nella fig. 5, a confronto di quella riconosciuta per le nuvole (fig. 6), diventano più comprensibili le discrepanze ora denunciate. L’acqua di condensa della nebbia che si raccoglie attorno ai frustoli grossolani di natura minerale ed organica non si dispone più come una sfera attorno ad un nucleo puntiforme, bensì come dei veli che disegnano figure geometriche poliedriche dal volume molto più grande, capace di accogliere più elettroliti e più corpi organici idrosolubili, disponendoli in modo omogeneo e quindi senza modifiche della tensione superficiale. Naturalmente non si può escludere una convivenza delle due strutture che ne farebbe variare elasticità e densità complessive. Infatti, una struttura in qualche modo abbarbicata al suolo e con forti legami interni, la renderebbe meno dissolubile dal vento e meno penetrabile dai suoni gravi più che non quelli acuti (i suoni gravi hanno bassa frequenza, decine di Hz, mentre i suoni acuti hanno alta frequenza, migliaia di Hz: la frequenza più elevata garantisce una maggior penetrazione), a forte energia, come quelli di una campana o di una sirena (usate in effetti come segnalazione in marineria): a questo proposito stiamo studiando un sistema di misurazione della densità della nebbia, basato sul decremento dell’intensità del segnale acustico. Inoltre una tale struttura respingerebbe più facilmente le radiazioni luminose per il prevalere dei fenomeni di riflessione all’interno dei poliedri, rispetto al prevalere dei fenomeni di rifrazione attraverso le sfere che solo le devierebbero: anche le radiazioni infrarosse sarebbero più facilmente respinte e così si impedirebbe al riscaldamento solare di dissolvere la nebbia. Infine troverebbe più convincente giustificazione la storicità della topografia delle nebbie, che dipende dal persistere di pulviscolo abbondante e grossolano in alcune zone poco ventilate e fredde, che non ha subito particolari incrementi o delocalizzazioni per le attività antropiche, notoriamente produttrici di un pulviscolo piccolo e pressoché puntiforme, non adatto quindi a generare strutture solide nell’acqua di condensa. Nostro scopo sarà quello di dimostrare una effettiva diversa struttura della nebbia rispetto a quella delle nuvole. L’obbiettivo di caratterizzare chimicamente i fluidi dell’idrosfera (fiumi, laghi, mari), della troposfera (fenomeni meteorici) e della biosfera (liquidi all’interno degli esseri viventi pluricellulari) è stato realizzato solo in parte. Gli ionogrammi riportati (fig. 7) sono attendibili esclusivamente per quanto riguarda il plasma umano, preso come esempio dei liquidi circolanti in esseri viventi pluricellulari, perché mantenuti costanti (con qualche variazione circadiana) da un rigido sistema omeostatico, regolato da controlli nervosi ed ormonali, per garantire l’invarianza di un mezzo interno utile alla vita di cellule programmata per 100 anni o poco più: è verosimile che qualcosa del genere si ripeta per tutti gli esseri viventi componenti della biosfera. Al contrario, gli esempi di ionogrammi riferiti ad acque oceaniche ed a nebbie di montagna sono solo orientativi di fluidi dell’idrosfera e della troposfera che sono soggetti a troppe variabili, alcune imprevedibili, relative alle coordinate spazio-temporali del punto di prelievo (profondità marina, altitudine montana, latitudine e longitudine con conseguente influenza su pressione-temperatura-umidità, esposizione alla radiazione solare giornaliera e stagionale), alla presenza di correnti aeree o liquide, alla solubilità delle rocce sommerse o alla friabilità di deserti petrosi e sabbiosi, alla distanza da estuari fluviali e da vulcani in attività, ecc. ecc..

Figura 7. Ionogrammi di fluidi terrestri
Figura 7. Ionogrammi di fluidi terrestri

L’impressione generale è che non esista un sistema omeostatico definito anche per i fluidi dell’idrosfera e della troposfera che pur rappresentano un grande ciclo di acqua evaporante nella troposfera e ricadente nell’idrosfera sotto forma di precipitazioni (pioggia, grandine, neve) o di deposito transitorio (nuvole, nebbia, rugiada, brina): se invece esiste, questo è ancora oscuro in termini di modi e mezzi di cui la chimica analitica è solo un semplice epifenomeno transitorio. Nuvole e nebbia sono forme di deposito liquido molto simili, tanto che, forse con un eccesso di semplificazione, la nebbia è qualche volta definita una nuvola di bassa quota. La nuvola è un insieme di sfere d’acqua condensata attorno ad una particella centrale di pulviscolo, contenente in soluzione elettroliti e residui organici idrosolubili, del diametro da 6 μm a 6 mm: la forma sferica è l’unica possibile per una goccia d’acqua sospesa in un aerosol rarefatto di gas inerti contenenti in sospensione molecole-atomi di minerali e residui organici che penetrano nella goccia e creano una tensione superficiale uniforme su tutta la sua superficie esterna, inversamente proporzionale al diametro della sfera. Il semplice accostamento delle sfere d’acqua condensata suscita una catena di fenomeni di accrescimento (le sfere più piccole, ad elevata tensione superficiale, si svuotano in quelle più grandi) finché il peso della goccia prevale sulla forza contrastiva dei venti e precipita al suolo: un ruolo decisivo, in questa caduta, avrebbero gli aghi di ghiaccio. Un modello strutturale di questo genere rende ragione della vita effimera delle nuvole destinate al dissolvimento a causa dei venti o al precipitare a terra, nel giro di poche ore dalla loro formazione. Il semplice trasferimento, per analogia, di questo modello strutturale alla nebbia, urta contro l’affermazione unanime che il suo contenuto in soluti è nettamente superiore a quello delle nuvole (da 3 a 50 volte superiore!) quando l’atteso sarebbe di una sostanziale invarianza o addirittura di una calo: la pressione atmosferica al suolo è di poco superiore a quella di quota 2000-3000 metri e quindi l’ingresso di soluti, secondo la legge di Dalton, dovrebbe essere solo modestamente superiore nella nebbia ma, secondo la legge di Henry, la temperatura, nettamente più alta al suolo, dovrebbe ridurre sensibilmente l’ingresso dei soluti nella nebbia. Inoltre un tale sovraccarico di tensione superficiale su una struttura a sfere avrebbe un effetto emulsionante di dissolvimento rapido che contrasta con la longevità della nebbia. E’ necessario pensare ad un’altra geometria dei liquidi di deposito nella nebbia, a cui non è estranea la fase particellare dell’aerosol primario che, alle basse quote, è più grossolana in quanto costituita da corpuscoli minerali aggregati, frammenti vegetali o animali galleggianti nell’aria bassa, erbe o pianticelle radicate al suolo. L’abbondanza della fase particellare comporta una più facile condensazione del vapor acqueo anche per valori lontani dal suo punto di saturazione, ma soprattutto comporta una condensa dell’acqua, almeno in parte, sotto forma di poliedri ad estesissima superficie e quindi con possibili aumenti volumetrici totali quali si ottengono immergendo in acqua saponata un reticolo di filo di ferro variamente sagomato per poi ritrarlo. In effetti una struttura mista, in parte sferica ed in parte poliedrica, può accogliere una maggior quantità di soluti senza riduzioni della tensione superficiale tali da causarne il dissolvimento: inoltre il maggior ancoraggio al suolo e la maggior coesione ad un reticolo di supporto può spiegare la longevità della nebbia per maggior resistenza ai venti. Queste stesse caratteristiche danno ragione del comportamento nella nebbia dei fenomeni oscillatori, sia meccanici sia elettromagnetici, in quanto i primi richiedono la presenza di un mezzo di trasmissione diversamente dai secondi. L’aria è un ottimo mezzo di trasmissione per le onde acustiche che invece vengono intralciate se l’aria perde la sua elasticità, per esempio per la presenza di un banco di nebbia: riusciranno a trasmettersi le onde più energiche, cioè quelle ad elevata frequenza come i suoni delle sirene o delle campane. Non si possono utilizzare sorgenti sonore a frequenza altissima (gli ultrasuoni) perché anche la nebbia non è sufficientemente densa per trasmetterli e la maggior parte di essi andrebbe dispersa. Le oscillazioni elettromagnetiche ad alta frequenza (e quindi a breve lunghezza d’onda) sono quelle che non richiedono un conduttore per trasmettersi e attraversano con facilità l’aria: la banda compresa tra 7000 e 4000 Ängstrom ci interessa in modo particolare perché è quella dello spettro visivo, accessibile cioè alla nostra retina. Quando questa banda di oscillazioni elettromagnetiche attraversa un banco di nebbia via via più denso, vengono intercettate ed intralciate quelle a frequenza più bassa (rosso, arancio, ecc.) poi quelle un po’ più alte (verdi, gialle) e passano indenni quelle più alte ancora (azzurro, violetto) ma che, purtroppo, non consentono un’immagine chiara. Anche per le oscillazioni elettromagnetiche vale il principio che sono più penetranti quelle ad elevata frequenza. L’evidente rapporto tra densità della nebbia e trasmissibilità del segnale acustico e/o visivo non si è tradotto tecnicamente nella possibilità di esprimere questo parametro così importante in modo semplice, ripetibile e quantificabile che consentirebbe, innanzitutto, di confrontare correttamente i dati fisico-chimici raccolti per nebbie omogenee e poi di verificare un’eventuale diversa compattezza tra nebbia e nuvole. A tutt’oggi il Servizio Meteorologico dell’Aeronautica usa una scala empirica per indicare la densità della nebbia, basata sulla visibilità di un oggetto, o si tenta un discrimine della nebbia in gruppi, relativi alla diversa genesi che, in realtà, si riferisce solo alle diverse circostanze in cui si verifica il medesimo meccanismo causativo (il condensarsi di vapor acqueo attorno ad un nucleo particellare). A questo punto ci sembra necessario un approccio di tipo fisico al problema della nebbia come preliminare allo studio della sua struttura e ad un’eventuale metodologia contrastiva.

RINGRAZIAMENTI
Un pensiero doveroso all’indimenticabile e ineguagliabile Prof. Dott. Federico Tabarroni.

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